Poteva scrivere per ore, e così fece. Scriveva di getto, in piedi, con la tastiera appoggiata allo stomaco. Fuori pioveva. Le fronde erano fradice. Tutti gli alberi della strada erano acacie di tre o quattro di metri, con i tronchi filiformi e smorti. Lui scriveva con la tastiera sullo stomaco. E sul terrazzo di fronte c'era una piccola basilica vegetale, una chenzia di vaso che esplodeva sotto le finestre. Avrà avuto sì e no dieci o quindici anni, le foglie di un verde scuro come un pozzo ricolmo d'acqua, un rigurgito piccolo-terrestre che diceva: - Ho qui tutto. Le mie preoccupazioni si sono estinte da un pezzo. Matteo Oriani amava immaginare il giorno in cui miriadi uccelli sarebbero piombati su quella pianta e avrebbero costruito fra i suoi steli un nido di perle. I rondoni, che erano migrati in quel periodo, sarebbero tornati in città volando per migliaia di chilometri, tagliando regioni sempre più settentrionali e si sarebbero stanziati in quei due fili di foglie nere, nidificando velocemente e senza amore, avrebbero lanciato stridii così violenti da strappare via i vestiti delle persone. E lui avrebbe riso dietro la finestra osservando la scena come una piece. |
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